
In Afghanistan la speranza c’è, basta guardarsi intorno
C’è un regime, l’economia è a pezzi, le donne sono scomparse dalla vita sociale e ogni divergenza viene repressa. Ma ci sono anche storie e persone che ridanno fiducia nel futuro.
Chiunque lavori nel campo umanitario ha un grande privilegio: genera speranza. L’ho percepito fin dalla mia prima esperienza lavorativa in un paese povero, il Sudan, a Juba. Assistendo bambini con patologie in Italia scomparse, come la poliomielite, e famiglie poverissime, il Centro OVCI Usratuna rappresentava un posto di speranza e fiducia. Vi ho trascorso oltre due anni ricchi, intensi, una palestra perfetta per imparare il mestiere di fisioterapista e entrare nel mondo della disabilità, tanto da vivere di rendita ancora adesso. Il processo è continuato a Kabul dove vivo ormai da trentacinque anni.
Non occorre l’aiuto concreto per generare speranza, spesso basta la semplice presenza. Ricordo negli anni Novanta, quando in Afghanistan infuriava la guerra civile, le ambasciate erano chiuse, le organizzazioni evacuate e il Paese si sentiva abbandonato. Sospese le attività di riabilitazione, la Croce Rossa Internazionale ci aveva mandato a cercare gli sfollati – migliaia - che avevano abbandonato le case perdendo tutto. Vivevano al gelo, senza acqua e senza cibo in posti di fortuna, edifici cadenti o in costruzione, moschee, scuole. Il solo vedere che qualche straniero era rimasto e si interessava a loro li confortava enormemente: il legame con il mondo non era dunque reciso, forse c’era un futuro. Improvvisamente in quei tuguri tremendi il buio spariva, i visi della gente si illuminavano, qualche sorriso affiorava.
Il lavoro di fisioterapista ha poi effetti sorprendenti. A Kabul ero stato assegnato ad un ospedale per feriti di guerra, un compito impegnativo, non tanto fisicamente - ero giovane allora - quanto emotivamente: trovarmi in una corsia con decine di letti occupati da vittime di mine anti-uomo di ogni età mi gettava sulle spalle un senso di grande ingiustizia. Perché la malvagità di piazzare mine sapendo che avrebbero colpito persone civili innocenti? Faticavo a comprendere come ogni volta che passavo tra i letti ci fosse una gara a salutare, a sorridermi, a invitarmi a sedere. L’ho presto capito: io e i miei colleghi rappresentavamo una speranza.
Il passare poi dall’ospedale al programma di riabilitazione fisica e reinserimento sociale non ha fatto che raddoppiare la possibilità di regalare speranza, grazie non solo ad attività per la ripresa fisica, ma anche a quelle per il ritorno nella società con un ruolo, per ridare dignità. Attività che si completano e sostengono. Con un ruolo sociale si riprende a vivere, si diventa sicuri di sé, l’autostima aumenta. Rendermi conto di aver contribuito a questo processo di rinascita è un regalo impagabile, un privilegio.
Ma a volte è la speranza di noi operatori che vacilla. Ci sono momenti in cui non vedi schiarite, i progetti non cominciano o sono in alto mare, fermi. Oppure rischiano di affondare. Quante volte l’ho provato. Dal 1990 ad oggi in Afghanistan ho visto cinque regimi: comunista, mujahiddin, talebano prima versione, liberato nel 2001 dalla coalizione di eserciti occidentali e, dal 2021, talebano nuovamente. Ogni regime una storia a sé, ma sempre con violenza e prevaricazione. L’attuale regime è complesso, con divieti uno via l’altro, l’economia a pezzi, le donne scomparse dalla vita sociale, la repressione di ogni divergenza, una sola etnia al potere e faide interne al governo. “Che succederà? Ci sarà mai una soluzione?” ti chiedi osservando l’intransigenza talebana da un lato e il disinteresse del mondo dall’altro. Finisci per vedere tutto nero, non trovi spunti positivi, vorresti gettare la spugna.
La mia ultima “crisi” è avvenuta qualche settimana prima di Natale. L’organizzazione per cui lavoro adesso, Nove Caring Humans, una piccola ONG italiana che si occupa di donne, disabilità & sport, era in difficoltà per gli ostacoli creati dalle procedure imposte dal governo. Inoltre, il capo supremo talebano minacciava di espellere tutte le organizzazioni straniere, perché considerate spie. Andavo al lavoro senza entusiasmo, giusto perché dovevo. Anche per non stare in ufficio, una mattina accetto l’invito di Malang, un fisioterapista del programma domiciliare a sostegno dei pazienti midollolesi, in genere nei quartieri più poveri e bisognosi.
Due i pazienti da visitare. Il primo un paraplegico di circa cinquant’anni, Said Hussain, lo conosco. Abita in due stanze di una casa recintata da un muro scrostato. Ha un’aia dove razzolano alcune galline, un pozzo in mezzo e un mucchio di cianfrusaglie di ogni tipo sui lati. Le stanze sono a pian terreno, accessibili alla carrozzina. Nel resto della casa abitano dei cugini. Said Hussain è seduto al sole con una spessa coperta addosso. Non lo vedo da parecchio tempo, non è cambiato molto. Dal suo sguardo intuisco che non sta pensando lo stesso di me. Ci fa festa, offre del tè. Malang controlla che i tutori con i quali riesce a mettersi in piedi siano in ordine, si assicura che faccia gli esercizi prescritti e che non abbia piaghe da decubito. Io gli chiedo dei figli, se lavorano. Raccolgono e vendono cose rotte e metallo, risponde indicando le cianfrusaglie. Il guadagno non è molto, ma tirano avanti. I tempi cupi di quando erano bambini sono finiti. Ora risparmiano per il matrimonio del maggiore.
Il secondo paziente, Abdul Mohammad, abita in cima a una collina. La casa è raggiungibile solo a piedi, passando accanto a rigagnoli maleodoranti. Un mare di bambini cammina con noi, i vestiti non puliti, le scarpe rotte. Malang mi dice che Abdul vive in un solo locale, freddo, che ha cinque figli, quattro ragazzine e, ultimo, un maschio di tre anni, nato proprio quando lui ha avuto l’incidente che l’ha paralizzato. È uno dei pazienti più poveri. Ci apre la moglie, una donna minuta che si copre subito il viso. Abdul Mohammad, sommerso da una coperta, ci regala un bellissimo sorriso. Si sta scaldando con il sandalì, un tavolinetto sotto il quale sta un braciere coperto da una grande trapunta per trattenere e distribuire il calore. Accanto a lui spuntano delle testine, non è il solo a scaldarsi. Ma sono tante, ben più di cinque. Abdul rivela che sono i quattro figli piccoli del fratello morto recentemente. Li ha presi in casa con sé, la cognata è malata in ospedale, non ha altri cui lasciarli. Come fa a sfamarli, mi chiedo. Come se mi leggesse nel pensiero aggiunge: “abbiamo poco, ma lo dividiamo. Con l’aiuto di Dio, basterà.” E sorride mentre una testa piccolissima spunta e gli si posa sulla lunga barba. Malang dice è sempre così in quella casa. Non hanno niente ma la porta è aperta a tutti.
È come se all’improvviso si fosse aperto il cielo, cacciate via le nuvole cupe. E io che vedevo tutto nero, niente di positivo, pronto a gettare la spugna. La speranza c’è, basta guardarsi intorno. È stato Abdul Mohammad a regalarmela.
Alberto Cairo
Fisioterapista in Afghanistan