Ambasciatori di speranza

Lavorano a piccoli passi su grandi obiettivi, ogni giorno, e non smettono mai di stupirsi per i traguardi raggiunti con i bambini. Tavola rotonda con gli operatori della Nostra Famiglia.

di Cristina Trombetti

“Trovare le fatiche è molto semplice, le hai davanti, le vedi, le senti, le percepisci. Trovare il punto di forza è la cosa più faticosa ma è quella che ti stupisce di più”. Gli operatori della Nostra Famiglia – che abbiamo incontrato nell’ambito di una tavola rotonda sullo stupore - sono concordi: lo stupore è la base del lavoro terapeutico con i bambini, è ciò che non fa mai cadere nell'abitudine, che consente di apprezzare ogni incontro come unico e irripetibile nonostante le fatiche, che sono tante.

“Senza stupore non andremmo avanti - riflette Maria Luisa Gaiarin, logopedista della sede di San Vito al Tagliamento -: lavoriamo anni per avere qualche risultato ma non dobbiamo mai smettere di stupirci, anche dei piccoli passi. Ne vale la pena, è gratificante e dà la forza per continuare a progettare”.

Ma da dove nasce lo stupore? Dove mette le radici questa piccola ma potente emozione? E soprattutto, c’è spazio per lo stupore nella riabilitazione?

Dove non arriviamo noi, arrivano i bambini
Spesso lo stupore è nelle piccole cose, come il raggiungimento di una semplice lallazione, spiega Francesca Valzano, educatrice sanitaria nella sede di Brindisi: “nel momento in cui un bambino per la prima volta ha detto ma ho visto la felicità negli occhi della sua mamma e ho capito che stavamo andando nella direzione giusta”.

Altre volte lo stupore nasce dai momenti bui, dalla paura di non farcela. Sara Limonta, terapista della neuro e psicomotricità presso la sede di Bosisio Parini, lavora con i ragazzi della scuola secondaria: “quando ho iniziato a lavorare temevo che non servisse a molto il lavoro che avrei fatto, perché le funzioni esecutive e cognitive sono abbastanza assodate a quell'età. Invece ho scoperto che non è così. Per esempio, per quanto riguarda la memoria, si possono trovare degli strumenti compensativi che i ragazzi poi usano in autonomia fuori da qui, in particolare nell'ambito scolastico”.

Quando si lavora con bambini che hanno tempi di acquisizione molto lunghi, talvolta ci si avvilisce rispetto a un obiettivo che si vede forse lo troppo lontano: “in quei momenti è il bambino che ci stupisce, venendoci incontro con una piccola cosa che rimette al posto giusto tutti i nostri i nostri obiettivi, le nostre percezioni rispetto al lavoro che stiamo facendo. Dove non arriviamo noi a volte arrivano i bambini”, spiega Alessandra Martignano, terapista della neuro e psicomotricità dell'età evolutiva presso la sede di Lecce.

Lo stupore è quindi la benzina del lavoro terapeutico, come spiega Luca Vanella, fisioterapista presso il Polo di Conegliano: “quando ci si ritrova disorientati perché un determinato percorso non sta prendendo la piega sperata, quando i familiari sono sconfortati perché non si vedono dei cambiamenti tangibili in poco tempo, ecco quell'emozione che riesce ad arrivare all'improvviso, come un lampo, anche dai bambini che vivono situazioni complesse sia dal punto di vista cognitivo sia dal punto di vista fisico. È una base emozionale ben definita, direi innata, che riguarda noi e loro”.

Ma c’è di più: talvolta lo stupore si annida anche nella sofferenza. Ne è convinta Monica Bosisio, educatrice sanitaria presso il Polo di Bosisio Parini, che lavora con i bambini con tumore cerebrale: “nel corso del tempo ne ho persi tanti e potrei chiedermi onestamente a cosa può servire il pezzettino del mio lavoro, ben sapendo dove stiamo andando… Ma questi bambini hanno uno stupore negli occhi che ti disorienta e che è più grande della situazione clinica. Chi crede può dire che sia una presenza del Signore. È difficile parlare di stupore nella sofferenza ma io so che c’è: c’è nei loro occhi, c’è nel genitore che sa benissimo che il percorso magari è breve ma cerca di far vivere il più possibile”.

Relazione terapeutica e fiducia
Lo stupore è quindi riconoscere che si può lavorare bene, che si può essere seguiti, che la relazione e l’accoglienza sono importanti, prima ancora dell’iter clinico, prosegue Monica Bosisio: “in reparto i bambini, gli adolescenti e i genitori arrivano con il freno a mano tirato… e poi invece ecco lo stupore di sentirsi accolti, anche nelle fatiche”. “È come se dicessero: anche se hai il camice, io qui mi trovo in un ambiente accogliente”, le fa eco Francesca Valzano.

Alla base dei successi ci sono quindi la relazione terapeutica e la fiducia, come spiega Alessandra Martignano: “spesso i bambini ci dicono no, non lo voglio fare perché non riesco. E poi però, sotto consiglio del terapista, accettano di incamminarsi verso quella che poteva sembrare una frustrazione e invece diventa il raggiungimento di un obiettivo”. “È vero - concorda Maria Luisa Gaiarin - i bambini piccoli quando arrivano in diurnato piangono per mesi, piangono per mangiare, piangono in classe… quando finalmente si accorgono che ci sei e ti identificano, incominciano a star bene perché ti riconoscono, riconoscono l'ambiente e stanno bene”.

Scoprire i punti di forza
“I ragazzi con cui lavoro si trovano ad affrontare tutti i giorni sfide nel vedere che altri sono più avanti di loro - riflette Sara Limonta -: ebbene, questi ragazzi rimangono stupiti quando scoprono i loro punti di forza, perché purtroppo hanno ben presente i loro punti di debolezza. Ci sono ragazzi che in seconda media non riescono a leggere e scoprono di essere fortissimi nella logica e fino a quel momento non se ne erano resi conto”.

“Mi sento un po’ portavoce di vari tipi di stupore - aggiunge Luca Vanella -: è difficile che ci sia un'uniformità di questa emozione, proprio perché noi osserviamo i bambini durante la loro crescita evolutiva. Quando sono piccolini ci regalano in maniera del tutto inconsapevole gesti e sorrisi mentre da adolescenti apprezzano quel risultato, quel cambiamento del loro fisico che li rende più performanti e di conseguenza li aiuta ad essere più autonomi…”.

Marco, Nick, Aron, Cosimo, Beatrice, Andrea, Marco, Martina, Giulia e Francesca
Sono molte le storie che incarnano lo stupore nella sua forma più pura, quella dei bambini. Laura Limonta racconta quella di Marco, un ragazzino che frequenta la scuola secondaria a Bosisio, che voleva solo giocare alla PlayStation, perché i giochi in scatola sono da bambini piccoli. Ebbene, Marco ha scoperto che i giochi si possono reinventare con nuovi livelli di difficoltà: “questo mi è servito per lavorare con lui anche sulla pianificazione e la gratificazione. Col nuovo gioco Marco è riuscito a mettere in difficoltà anche la mamma e si è reso conto che i nuovi livelli non solo andavano bene per lui che ha undici anni, ma anche per la mamma che ne ha più di 40”.

Nick invece è un bambino di nove anni con diagnosi di disturbo misto dello sviluppo e con un mutismo dovuto a vicissitudini familiari: “ho cominciato a seguirlo a settembre e, dopo un percorso di adattamento in cui comunque non parlava né a scuola né a casa, giocando a calcio si è avvicinato e mi ha detto il suo nome nell’orecchio: anche se a bassissima voce, per me è stato il raggiungimento di un importante traguardo”, racconta Francesca Valzano.

Aron è un bimbo prematuro, non parla e ha un deficit cognitivo importante: “lo stupore è stato quando ha capito che sbattendo la manina sulla parola ancora poteva ottenere una canzoncina che gli piaceva. Da lì è partita la generalizzazione di questo gesto”, racconta Maria Luisa Gaiarin.

Cosimo era un ragazzino ricoverato a Bosisio per un medulloblastoma: è mancato tre settimane dopo la dimissione. “Ho qui davanti il biglietto che mi ha lasciato - racconta commossa Monica Bosisio -: dice “Monichina mia, ricordati che ti voglio un mondo di bene” ed è firmato bignè. Era un bambino sotto cortisone e quindi pacioccone… non gli mancava l’ironia. Anche Beatrice è stata ricoverata per parecchio tempo nel reparto di riabilitazione neuro-oncologica: quando finalmente è riuscita a non essere più nel circolo degli ospedali, è andata al mare e mi ha regalato un barattolo con dei sassi su cui c’era scritto “aria di mare da Beatrice”. Così io, che ero sempre qua e vedevo tanti bambini ammalati, potevo portare loro un po’ dell'aria di mare…”.

C’è poi Andrea, che aveva un’impulsività e un'aggressività che non riusciva a gestire bene: “abbiamo lavorato attraverso il corpo e il gioco e, quando abbiamo raggiunto tutti gli obiettivi, mi ha detto “grazie perché mi hai educato” - racconta Alessandra Martignano -. Con i bambini con tratti comportamentali noi operatori fungiamo da contenitore ed è stato bellissimo vedere Andrea finalmente libero dalle sue paure e dalla sua rabbia. I bambini ricercano le regole, perché nel loro caos c'è ansia: nel momento in cui ci sono dei limiti, quest'ansia si placa e loro tirano un respiro di sollievo. E così le famiglie, perché vedono che c’è una strada che si può cavalcare: quella relazionale”.

Ci sono poi Marco, Martina e Giulia, che hanno festeggiato il compleanno della loro terapista Sara Limonta regalandole piccoli oggetti che appartenevano a loro. “Per questi ragazzini venire il pomeriggio a Bosisio per i trattamenti è l'ennesima cosa diversa che fanno rispetto ai compagni, che dopo la scuola tornano a casa. Qui tutti i giorni si trovano circondati dalla disabilità anche grave, in cui spesso non si riconoscono, perché oggettivamente hanno delle difficoltà cognitive e motorie molto minori rispetto agli altri bambini che frequentano il Centro. Però poi a livello emotivo forse soffrono anche di più… Per questo il fatto che ogni giorno arrivino al Centro felici di vedere me e tutta l’équipe mi riempie di stupore”.

Francesco è un bambino con diparesi che frequenta la scuola per l'infanzia presso il Centro di Conegliano: “quando è arrivato, dal punto di vista comportamentale viveva in uno stato di isolamento relazionale e si autoinduceva il vomito quando qualcosa usciva dal suo schema di vita - spiega Luca Vanella -. È stato davvero un osso duro ma con pazienza ci siamo messi a lavorare sugli aspetti relazionali e non solo su quelli motori. E così da un semplice episodio -  ho proposto il classico gioco della guardia e ladri – sono riuscito a creare lo switch: Francesco si è sentito incluso, parte integrante di un gioco che coinvolgeva anche i suoi compagni e ha smesso di vomitare, anche con tutti gli altri operatori. Adesso è molto collaborativo e non vede l'ora di partecipare alle attività”.

“Siamo tutti sulla stessa barca – concludono gli operatori - ma è difficile trasmettere ad altri le sensazioni che proviamo e così rischiamo di tenere per noi certe fatiche. Eppure affrontiamo ogni giorno con una nuova speranza, altrimenti non saremmo nel posto giusto”.