
“Gli incontri con le persone mi hanno aiutato a crescere e sperare”
La miseria e l’esclusione sociale degli anni post sovietici, il riscatto grazie alla presenza di figure positive: la storia di Kola, dall’orfanotrofio sul Volga all’adozione in Italia, al centro del romanzo autobiografico “Dasvidania”.
Intervista a Nikolai Prestia
di Cristina Trombetti
«Feci un patto con me stesso: non avrei più associato a una cosa brutta il sacchetto di mele che mia madre mi aveva portato all'ultima visita, ma piuttosto a qualcosa di spirituale. I bambini hanno grande fantasia, e io con la fantasia me la cavavo bene». Kola ha sette anni quando, con la sorella Alyona, entra in un orfanotrofio sul Volga: ha alle spalle una vita difficile, non ha mai conosciuto il padre e la madre Irina non è riuscita a sopravvivere ad un contesto povero e violento: “Di lei ho pochi ricordi ma posso dire con assoluta certezza che era bellissima. Occhi azzurri come il cielo quando il sole è felice, chioma mossa e color paglia come la mia quando ero bambino. Aveva la malinconia addosso, condannata a non poter scegliere”.
Quel bambino, che oggi ha trentaquattro anni e vive in Italia, è Nikolai Prestia, autore del romanzo autobiografico “Dasvidania”. La sua è una storia dura, abitata dal male, che racconta gli aspetti di miseria ed esclusione sociale degli anni post-sovietici: “Era una vita difficile: droghe e alcol, pugni e odori forti, uomini”. Una storia che tuttavia trova un riscatto grazie alla presenza di figure positive, come il direttore dell’istituto, che accoglie i bambini con una voce calda e profonda: “non fatevi spaventare da questa parola: sono direttore solo per le questioni burocratiche, per il resto sono il vostro maestro, il vostro bidello, il vostro cuoco e, perché no, anche il vostro amico”. O Babushka Faya, che pur essendo una lontana parente, si prende cura di Kola e Alyona: “Ogni tanto immagino il suo dolce volto, percorso da quelle rughe che si erano depositate negli anni, trascinando con sé gli aloni di un ricordo. Vorrei tanto essere una di quelle rughe, accarezzarle il viso e ricordarle che sono lì, che non l’ho mai dimenticata e che le sono grato e lo sarò per sempre”. O la coppia di maestri siciliani che adotta i due fratellini, offrendo loro una famiglia da cui potranno guardare avanti e lasciarsi alle spalle il dolore: “Sapevano di buono, indossavano vestiti nuovi, senza strappi né cuciture. E soprattutto le loro parole non puzzavano di alcol, quindi erano vere, genuine. E poi si tenevano la mano”.
Nikolai, nel tuo libro c’è tanto dolore ma anche figure positive…
“Più che le persone, sono stati gli incontri con le persone che mi hanno aiutato a crescere e sperare. Ero un bambino acerbo, diffidente verso il genere umano, ma il direttore, Babushka e i miei genitori adottivi, piano piano, con il loro calore, sono riusciti a creare un distacco dal mondo nero degli adulti che avevo conosciuto fino ad allora”.
Nel libro pesano molto gli incontri ma anche gli addii…
L'idea di dirsi addio e sapere che ci sono persone che non torneranno più ha dato un'impronta al mio carattere e al mio modo di vedere la vita delle cose. Può sembrare strano, ma su questo punto ho anche una visione positiva: ogni addio è sempre un ricominciare e il termine dasvidania indica proprio questo, addio o arrivederci al prossimo incontro, addio per sempre oppure ok, lasciamo da parte la vecchia vita, adesso possiamo ricominciare.
E poi c’è l’immaginazione, quella risorsa che ti ha consentito di indagare il potere simbolico degli oggetti e di parlare con una mela…
Nell'immaginazione c'è sempre la speranza e allo stesso tempo la speranza alimenta l'immaginazione. Mi ha aiutato ad evadere dal presente, ad assorbire meglio la pesantezza dell'esperienza di vita e a trovare un aspetto positivo nelle giornate più cupe. E poi, grazie all’immaginazione potevo incontrare Irina: l’ultima volta che venne a trovarci in istituto, ci portò un sacchetto di mele, una delle quali era marcia. Al termine del romanzo, quando sto per lasciare la Russia perché vengo adottato, questa mela da marcia diventa verde: sto per andarmene via, in qualche modo sento di lasciare qualcosa, però con questo simbolo mi porto via qualcosa che sto lasciando fisicamente.
Sei riuscito a perdonare?
Ho scritto il libro per razionalizzare i miei ricordi e anche per perdonare più persone possibili. Poi, col tempo, ho capito che non c’era niente da perdonare: l’assenza di Irina era dovuta all’impossibilità di prendersi cura di noi, perché lei stessa aveva subìto violenza. Tutto dipende dal quartiere in cui nasciamo ed è il contesto che ci determina. È questione di dove nasci, come cresci e con quali strumenti vai avanti. Se non hai un'istruzione, come fai a capire cosa è giusto e cosa è sbagliato? E se sei povero, come fai ad avere una casa con una porta sicura che possa non essere sfondata col primo calcio? Più che perdonare, punto il dito contro il contesto sociale in cui sono cresciuto.
Nel tuo secondo romanzo, La coscienza delle piante, racconti il disagio di molti giovani studenti schiacciati dalle aspettative sociali della performance e del successo, fino ad arrivare a pensare al suicidio. Anche qui la tua critica alla società è potente…
Siamo così abituati a pretendere troppo da noi stessi che non ci rendiamo conto che a volte bisogna prendersi una pausa. Abbiamo a disposizione uno strumento importante, che è il tempo, mentre la società della performance mira esclusivamente al risultato immediato. Potrei prendere ad esempio la mia esperienza universitaria: rallentare, prendermi delle pause, mi ha permesso di scoprire la scrittura e di comprendere che il tempo non è tutto. Si può rallentare, senza per questo sentirsi un fallito.