
L’insieme ha bisogno di ciascuno
“Ognuno dà la propria impronta all’intera umanità e anche i limiti, soprattutto i limiti, ci fanno incontrare”.
Non possiamo sciupare la parola ‘speranza’, come uno di quegli slogan che, passata la loro stagione, iniziano a sapere di passato. Nel futuro vogliamo invece entrare con realismo, portando con noi il sapore del bene che abbiamo già visto trasformare persone e situazioni. Certo, la memoria del bene coinvolge: chiama fuori dalle nostre zone di comfort, ricordandoci che non c’è nulla di automatico nel corso delle cose. Speranza, in effetti, è l’alternativa a un futuro già scritto, a una storia già chiusa. Eppure, attorno a noi e anche dentro di noi ascoltiamo voci che dichiarano: «Non si poteva fare diversamente»; «Non ci piace, ma è necessario»; «Era inevitabile, gli esseri umani sono sempre stati così». Sono confessioni di scetticismo a cui, grazie a molti testimoni, possiamo opporre la fede che ha già visto muoversi le montagne. Ebbene, la parola ‘speranza’ si sciupa se la pronunciamo in ogni salsa senza separarci dalla rassegnazione. Bisogna correre un rischio, sopportare una frattura: non ogni sentire ha la stessa radice e produce i medesimi effetti. La speranza sorge dal bene e genera il bene. Chi ne è sospinto ha i piedi per terra, conosce luci e ombre della vita, ma si muove.
Grazie a papa Francesco e ora a papa Leone, legati l’uno all’altro come i due frati di Assisi che portarono il loro nome, il futuro verso cui ci muoviamo riecheggia una parola a noi cara: ‘famiglia’. La terra ferita è nostra casa comune, l’umanità intera è “la nostra famiglia”. Dalla storia associativa scaturita dal carisma di Luigi Monza possiamo attingere, così, visioni e audacia da opporre alla rassegnazione. La generosità delle persone e le loro competenze relazionali e professionali riguardano non solo loro stesse o piccoli segmenti della realtà. Al contrario, il bene riguarda sempre l’intero. Quando è fatto bene e con disinteresse, traduce la fede in un dinamismo irresistibile, che scavalca le differenze e abbatte le diffidenze. È questo movimento estroverso, di uscita da sé delle singole persone e delle comunità, a riparare la casa in rovina. Nessuno ha troppo poco per non dare sé stesso. Nessuno è così ricco da non ricevere il centuplo. Anche i limiti, soprattutto i limiti – quelli fisici, quelli mentali, quelli spirituali – ci fanno incontrare: se li temiamo, ci difendiamo; se li accogliamo, ci sosteniamo. Il mio limite è il contorno che fa spazio a ciò che io non sono, né sono chiamato ad essere: tratteggia il mio profilo ed esalta quello altrui. ‘Famiglia’ è il nome che diamo a questa originaria scoperta, impossibile da ridurre al privato. Questo la Chiesa sta oggi comprendendo e rivelando all’intera umanità: solo insieme c’è salvezza.
Alcuni anni fa ho ricevuto un’intuizione molto forte, che non mi abbandona e, anzi, si approfondisce: siamo cattolici solo se riconosciamo di essere incompleti. L’intero non sono io, ma il mistero che mi supera da tutte le parti e che a sua volta non sarà ‘cattolico’, cioè universale, senza di me. L’uno rinvia all’altro, ognuno diviene sé stesso negli incontri che ha fatto e farà. E l’insieme ha bisogno di ciascuno. Ancora una volta: non automaticamente, ma giocandosi. È questo rischio che costa la fatica di ogni giorno: l’impegno a progettare, la fedeltà nell’accompagnare, l’abbassamento a servire, la determinazione a studiare. Ognuno dà la propria impronta, il suo contributo. Può anche non farlo, rinunciare. Si tratta di una vera e propria spiritualità, che per i credenti si alimenta di preghiera e si nutre nella memoria di Gesù. Per tutti, essa esige spazi di decompressione e di silenzio, in cui perdere il controllo delle intenzioni e farsi trasportare dal sogno, che rimescola le carte, riaccende il desiderio.
Esiste su questa terra uno sviluppo silenzioso che il paradigma della forza non sa riconoscere. Esiste all’interno dei nostri limiti una crescita che il paradigma della produzione non sa apprezzare. Suonerebbe troppo romantico dire che si tratta della forza dell’amore. Culturalmente, infatti, non siamo disposti a riconoscere all’amore un valore civile e forse nemmeno un ruolo nella riforma ecclesiale. Diremo allora che si tratta della dignità inviolabile di ogni essere umano, quella che Simone Weil riconosceva scritta nella carne, al fondo del grido di chi ci chiede: «Perché mi fai male?».
La risurrezione inizia già quando l’innocente ci pone fra le mani il suo corpo come una parola - «questo è il mio corpo» - e ci offre la sua fragilità come un seme, sepolto nei nostri pensieri. Milioni di corpi innocenti sono diventati nella storia delle parole che interpellano. Qualcosa è avvenuto, qualcosa abbiamo capito, ma sembra non sia mai abbastanza. Quanto male, quanta distruzione, quanta solitudine! Quanti corpi ancora dovremo contemplare come il corpo crocifisso? Quanti corpi ancora dovremo abbracciare come il lebbroso che Francesco abbracciò? Quanto più debole, ferito e screditato dovrà essere il corpo ecclesiale perché ci parli di quello di Cristo? Siamo permanentemente in difesa.
Il bene però esiste. Esiste un magistero della fragilità. La più grande idea di Papa Francesco è che i poveri ci evangelizzano. La Chiesa deve includere chi può evangelizzarla. È il rovesciamento di un modello millenario. I discepoli di Cristo non sono anzitutto soggetti della missione, ma rimangono in ogni stagione della loro storia destinatari del vangelo. I grandi santi ‘sociali’ dell’epoca moderna avevano intuito e seguito questa inversione di priorità. È la rivoluzione che Maria canta nel Magnificat: un innalzamento degli umili non per disprezzo alla vita, ma per il di più che si rivela nella loro vita. Ciò che è grande è in basso, sotto di noi, chiede che ci pieghiamo per essere trovato, come il tesoro nascosto in un campo.
La profezia della fragilità è cristocentrica, perché modifica la nostra idea di sviluppo, di crescita, di missione. La disabilità ci ferma e ci diventa una parola rivelatrice. Non saremo mai adoratori della sofferenza. Ma annunciamo e confessiamo che la vera misura umana risplende nel corpo ferito e vivente di Cristo. In questo annuncio c’è una contestazione delle principali direttrici di crescita e di sviluppo che, supportate da ideologie diverse e talvolta opposte, devastano il mondo. Al “paradigma tecnocratico dominante” le storie di vita e di risurrezione che oggi abbiamo incontrato oppongono la cultura dell’incontro e della cura, della responsabilità e dell’attenzione. La cultura della lentezza e della dignità. È il terreno comune su cui la civiltà europea può incontrare ogni altra civiltà. L’alternativa a questo incontro è l’inciviltà, che oggi più che mai dobbiamo pregare e lottare affinché non prevalga. È la storia da cui veniamo, però, a insegnarci la speranza. A noi scriverne pagine nuove.
Sergio Massironi
Direttore della ricerca internazionale “Fare teologia dalle periferie esistenziali”