
All’altezza dei fiori
La speranza è la capacità di vedere, perfino nella tragicità della storia, la luce che avanza.
"Amo i misteri della vita, non quelli che sono risolti, ma quelli che sono aperti e pieni di opportunità”, scrive Henry David Thoreau, e cosa c’è di più ricco e gonfio di possibilità del mistero della nascita e del suo apparente contrario, la morte?
Amo nelle persone la capacità che hanno conservato, nonostante tutto, il riuscire ancora a meravigliarsi, le persone che sono rimaste curiose e pronte a sorprendersi, che si fanno sempre domande, come bambini.
Nel viaggio della vita la meraviglia diventa una guida inattesa: ci invita ad esplorare, a scoprire e, soprattutto, ad amare. Ci conduce a non chiuderci nelle nostre aspettative, a non dare per scontata l’esistenza, a non presumere di conoscere ormai già tutto: lo stupore ci apre porte e finestre, lascia passare aria fresca e pulita, ci immerge in una nuova dimensione, imprevista. Che profuma di infinito.
Ne “L’Infinito” Giacomo Leopardi parla di “interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete.” E di fronte a tutto questo il cuore “si spaura”, si spaventa, quasi arretra intimidito. Credo sia successo a tutti noi, guardando le stelle e il cielo infinito o davanti al mare che ci appare immenso e sconosciuto, oppure quando siamo calati in un silenzio troppo profondo: avvertiamo un brivido di paura, ci ritroviamo “spauriti” nella nostra piccolezza.
Ma, continuando a leggere, al nostro Leopardi accade di udire il vento tra le foglie e gli “sovvien l’eterno.” L’infinito diventa esperienza reale, quasi tangibile. L’infinito si innesta nella vita. O forse è la vita stessa innestata nell’infinito? Domanda aperta, che non ha risposte se non quelle che brevemente, fugacemente ci raggiungono.
Succede anche a noi, sì, in un momento che ci sembra magico, in un attimo sempre troppo breve, di sentirci sfiorati dall’infinito e lo sentiamo intimamente, lo percepiamo profondamente che quelli sono i momenti di vita vera, che quelli sono l’anticipo del paradiso.
Guardare la nascita e la resurrezione, con l’obbligatorio passaggio attraverso la morte, significa guardare la complessità della vita, della morte e del rinnovamento, attraversando una serie di esperienze emotive e suggestioni profonde che ci collegano al divino, all'umanità e al ciclo della natura.
"La mia anima è una foglia che viene strappata, ma ogni volta un frutto si appende a quell’albero" scrive William Blake: la foglia cade e marcisce in terra, contemporaneamente al suo posto si gonfia il frutto. Morte e vita, nascita e resurrezione.
Non si nasce una sola volta così come non si muore una sola volta: sulla nostra lapide andrebbero iscritte tutte le date in cui abbiamo attraversato le innumerevoli piccole morti dalle quali siamo poi rinati; ogni volta che abbiamo trovato la forza di ricominciare, di iniziare di nuovo accettando la trasformazione; tutte le volte che abbiamo lasciato cadere la foglia guardando increduli la promessa di un frutto che matura.
Scrive Erri De Luca: “Si ha dei fiori l’immagine della delicatezza, per decorare tavole, offrire un omaggio alle donne, infilarne uno all’occhiello. (…) Sono al contrario la più forte forma vivente. In primavera sul mio campo si spande una distesa di piccole margherite. Ci cammino sopra, le calpesto e quelle, dopo essersi piegate, si rialzano illese. (…) C’è da imparare dai fiori. C’è da mettersi alla loro altezza.”
Di fronte alle catastrofi che precederanno la fine, quando accadranno sconvolgimenti come terremoti, carestie, guerre (Lc 21,28) Gesù invita ad alzare il capo e a sollevare lo sguardo, perché la liberazione allora, proprio allora, sarà vicina. Questa è la speranza, la capacità di vedere, perfino nella tragicità della storia, la luce che avanza. Il credente, cioè chi ha fiducia nel Dio in cui crede, alza gli occhi e vede l’invisibile, vede ciò che si nasconde nella realtà oscura e drammatica degli eventi. Vede la resurrezione attraverso la morte.
E allora beato chi aspetterà con pazienza, beato chi possiede la speranza e di essa si nutre. Forse è questa “beatitudine dell’attesa” la benedizione più bella, perché è, del discepolo, la postura più vicina a Dio.
È la stessa attesa del padre del figliol prodigo, l’attesa dell’amico che tarda, ma che arriverà, della pace che prima o poi si farà, delle fede che ci sembra persa, ma non per sempre, dei volti di chi abbiamo amato e che sentiamo che possiamo rivedere. È il mettersi “all’altezza dei fiori”.
Don Luigi Verdi
Fondatore e responsabile della Fraternità di Romena